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  • Ubuntu Gnome 13.04

    Ubuntu Gnome 13.04

    Martedì, 13 Agosto 2013 16:47

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  • 25 aprile e resistenza

    25 aprile e resistenza

    Giovedì, 25 Aprile 2013 18:41

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    Lunedì, 02 Settembre 2013 15:42

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    Giovedì, 17 Gennaio 2013 20:26

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    Mercoledì, 24 Luglio 2013 21:20

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    Martedì, 01 Ottobre 2013 09:41

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    Domenica, 21 Aprile 2013 10:26

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  • Volemose bene, facendo la guerra.

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    Domenica, 03 Febbraio 2013 18:53

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    Giovedì, 24 Gennaio 2013 19:35

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    Venerdì, 08 Novembre 2013 12:11

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Platone - Protagora

E chi ha una tale opinione, pensa che la virtù possa essere oggetto di educazione: è per prevenzione, dunque, che punisce. E quest'opinione è condivisa da tutti coloro che puniscono, e nella vita privata e in quella pubblica. E così gli altri popoli puniscono e castigano coloro che essi ritengono colpevoli di ingiustizia, e non meno degli altri gli Ateniesi tuoi concittadini. Sicché, secondo questo ragionamento, anche gli Ateniesi rientrano fra quelli che credono che la virtù possa essere trasmessa ed insegnata.

Che, dunque, a ragione i tuoi concittadini ammettano anche un fabbro o un calzolaio a dar consigli negli affari politici, e che ritengano che la virtù si possa insegnare e trasmettere, o Socrate, ti è stato dimostrato a sufficienza, almeno a mio giudizio.

Resta quindi ancora una difficoltà che tu non sapevi risolvere a proposito degli uomini valenti: perché mai quegli uomini che sono valenti insegnano ai propri figli quelle altre cose che dipendono dai maestri e in queste cose li rendono sapienti, mentre in quella virtù in cui essi stessi sono valenti non sono capaci di renderli migliori di nessun altro. Su questo punto, Socrate, non ti racconterò più un mito, ma ti farò un ragionamento. Prova a considerare la questione in questo modo: esiste o non esiste una cosa unica, di cui è necessario che tutti i cittadini partecipino, perché possa esserci una città? Qui sta infatti la soluzione della difficoltà che tu poni e da nessun'altra parte. Se dunque questa cosa esiste, e se questa cosa unica non è né l'arte del costruttore né quella del fabbro né quella del vasaio, ma è la giustizia, la temperanza e la santità, e quella che, per chiamarla con un nome solo, io chiamo virtù dell'uomo; ebbene, se è questa la cosa di cui tutti gli uomini devono partecipare e con cui ogni uomo deve imparare e fare ogni altra cosa che voglia imparare o fare, e senza la quale non deve fare nulla; se chi non ne partecipa va istruito e punito, si tratti di fanciullo, uomo o donna, finché non diventi migliore attraverso la punizione; se chi non si sottomette alle punizioni e agli insegnamenti, va considerato inguaribile e cacciato dalla città o ucciso; se, dunque, le cose stanno così , e se, pur essendo questa la sua natura, gli uomini valenti insegnassero ai propri figli tutte le altre cose tranne questa, considera quanto sarebbero strani questi valentuomini!

Ora, che essi la considerino cosa che possa essere insegnata, e nella vita privata e in quella pubblica, lo abbiamo già dimostrato. Ed essi, mentre essa è insegnabile e coltivabile, insegnano ai figli le altre cose, per le quali, nel caso le ignorassero, non esiste la pena di morte, e quella cosa invece per la quale, nel caso non l'imparassero e non la coltivassero fino a diventarne valenti, li attende la pena di morte e l'esilio, e, oltre alla morte, la confisca dei beni e, in una parola, la rovina della casa; ebbene, proprio questa cosa non l'insegnano e non se ne curano con tutto l'impegno? Bisogna proprio crederlo, Socrate! Cominciando fin dalla più tenera infanzia dei figli fino a che vivano, continuano a dar loro insegnamenti e ammonimenti. E, non appena uno comincia ad intendere il senso di quanto gli vien detto, la nutrice, la madre, il precettore e il padre stesso si danno un gran da fare perché il bambino diventi quanto possibile migliore, ad ogni sua azione o parola insegnandogli e mostrandogli: "Questo è giusto e questo ingiusto; questo è bello e questo brutto; questo è santo e questo empio; queste cose falle e queste altre non farle". E questo se egli obbedisce di sua spontanea volontà. Altrimenti, come si fa con un legno storto e piegato, lo raddrizzano a colpi di minacce e botte. Più tardi, poi, quando lo mandano alla scuola dei maestri, raccomandano loro di curare molto di più la buona condotta dei ragazzi che non l'insegnamento delle lettere e dell'arte di suonar la cetra. I maestri, dunque, li prendono sotto le proprie cure, e, quando sanno ormai leggere e possono capire il senso degli scritti come prima capivano il senso di quanto veniva detto, danno loro da leggere, sui banchi, opere di validi poeti, e li costringono a imparare a memoria quelle opere in cui abbondano ammonimenti, narrazioni, elogi ed encomi di virtuosi uomini del passato, perché il ragazzo, mosso da spirito di emulazione, li imiti e desideri diventare tale e quale. I maestri di cetra, a loro volta, fanno la stessa cosa: si prendono cura della loro temperanza, e badano che i giovani non facciano nulla di male. Poi, una volta che abbiano imparato a suonare la cetra, insegnano loro le opere di altri validi poeti lirici, facendole eseguire coll'accompagnamento della cetra, e fan sì che i ritmi e le armonie diventino familiari alle anime dei fanciulli, perché siano più mansueti, e, trovato maggior equilibrio e maggiore armonia, siano capaci di parlare e di agire in modo benefico. Tutta la vita dell'uomo, infatti, richiede equilibrio ed armonia. Ed ancora, oltre a ciò, li mandano anche dal maestro di ginnastica, affinché abbiano corpi migliori da mettere al servizio di una mente sana, e perché il cattivo stato del corpo non li metta nella condizione di cedere alla paura in guerra e in altre imprese. E queste cose le fanno coloro che hanno maggiori possibilità, e ad avere maggiori possibilità sono i più ricchi: i loro figli, mentre cominciano a frequentare le scuole dei maestri in età più giovane rispetto agli altri, più tardi degli altri le lasciano.

E quando hanno lasciato la scuola, la città a sua volta li costringe ad imparare le leggi ed a vivere tenendole come modello, affinché non possano agire a proprio arbitrio ed a caso. E, in tutto e per tutto come fanno i maestri di grammatica con quei fanciulli che non sono ancora capaci di scrivere, che, solo dopo aver abbozzato con lo stilo le tracce delle lettere, danno loro la tavoletta e li fanno scrivere seguendo le linee tracciate, così anche la città, dopo aver segnato il tracciato delle leggi, scoperte da antichi e valenti legislatori, costringe a governare e ad obbedire conformandosi a quelle, e punisce chi si muova al di fuori di esse. E a questa punizione, qui da voi come in molti altri luoghi, si dà il nome di "raddrizzare", significando con questo che la pena raddrizza.

Ora, benché vi sia tutta questa cura della virtù in privato e in pubblico, tu ti stupisci, o Socrate, e non sai capire se la virtù sia insegnabile? Ma non bisogna stupirsene, e anzi bisognerebbe stupirsi molto di più se essa non fosse insegnabile!

Ma perché, allora, da padri valenti nascono figli buoni a nulla? Eccotene la ragione: non c'è nulla di sorprendente in questo, se nelle mie precedenti affermazioni dicevo il vero, quando cioè sostenevo che di questa cosa, ossia della virtù, nessuno deve esserne all'oscuro, perché una città possa esistere. Ebbene, se quello che dico è vero, e lo è al di sopra di ogni altra cosa, scegli una qualsiasi altra occupazione o scienza e rifletti. Se ad esempio non fosse possibile che una città esistesse, a meno che non fossimo tutti suonatori di flauto, ognuno come ne fosse capace, e a meno che tutti non insegnassero a tutti quest'arte, e in privato e in pubblico, e non coprissero di biasimo chi non suonasse bene, e se non si tenesse gelosamente per sé la conoscenza di quest'arte, come ora nessuno tiene gelosamente per sé la conoscenza del diritto e delle leggi, né la tiene nascosta, come si fa invece con la conoscenza delle altre arti (e questo avviene, io credo, perché la giustizia reciproca e la virtù è per noi un guadagno: è per questo che tutti sono pronti a dire e ad insegnare a tutti ciò che è giusto e conforme alla legge); se, dunque, questa fosse la situazione e noi avessimo tutto questo zelo e tutta questa generosità nell'insegnarci l'un l'altro l'arte di suonare il flauto, pensi forse, o Socrate, che i figli di flautisti eccellenti avrebbero maggiori probabilità di diventare a loro volta eccellenti flautisti rispetto ai figli di flautisti mediocri?

Io credo di no! Credo invece che diventerebbe famoso chi nascesse con le più favorevoli disposizioni naturali all'arte di suonare il flauto, di chiunque egli fosse figlio, e che, d'altra parte, resterebbe senza gloria chi nascesse senza naturali disposizioni per quell'arte, di chiunque egli fosse figlio. E spesso, anzi, da un grande flautista può nascerne uno mediocre, e, al contrario, da un flautista mediocre può nascerne uno eccellente. Tutti, però, sarebbero flautisti abbastanza abili, se paragonati a coloro che di quest'arte sono profani e che non s'intendono per nulla di flauto. E così anche in questo caso, credilo pure, quell'uomo che ti sembra essere un campione di ingiustizia fra quanti sono stati allevati nelle leggi e nel consorzio umano, costui ti darebbe l'impressione di essere uomo giusto e anzi maestro in questo campo, se ti trovassi a giudicarlo in confronto a uomini che non avessero avuto né un'educazione spirituale, né tribunali, né leggi, né alcuna forma di costrizione che li obbligasse, in ogni circostanza, a tener conto della virtù, ma fossero selvaggi del tipo di quelli che l'anno scorso il poeta Ferecrate (53) portò in scena nel Leneo. (54) Certo, se tu ti trovassi fra uomini del genere, come i misantropi in quel coro, saresti ben contento di poter incontrare Euribate e Frinonda, (55) e ti lagneresti rimpiangendo la malvagità degli uomini di qui. Ora invece, Socrate, fai il delicato, perché tutti sono maestri di virtù, nella misura in cui ciascuno ne è capace, e quindi nessuno ti sembra essere tale. E come se tu, per fare un esempio, cercassi chi è maestro del parlar greco: non ce ne sarebbe uno che ti parrebbe tale! Né, credo, ci sarebbe qualcuno che ti parrebbe tale, se tu cercassi chi ha insegnato ai figli dei nostri artigiani quell'arte, appunto, che essi hanno imparato dal padre, nella misura in cui il padre e gli amici del padre che facevano lo stesso mestiere ne erano capaci. Ebbene, chi altri abbia insegnato loro l'arte e risulti quindi loro maestro, non credo sia facile stabilirlo, o Socrate, mentre è senz'altro facile stabilire chi sia stato il maestro di chi era del tutto all'oscuro di una data arte. E così accade nel caso della virtù e di tutte le altre cose. Se poi c'è qualcuno che ci superi anche di poco nella capacità di farci strada verso la virtù, c'è di che esserne contenti. E io penso di essere precisamente uno di questi, e di poter essere utile, più di ogni altro uomo, a far diventare altri gente per bene, e di farlo in un modo che vale ben il compenso che io esigo, e anche di più, tanto che lo stesso discepolo è di quest'opinione. Per questo ho dato disposizioni che la riscossione del mio compenso avvenga nel seguente modo: una volta che uno ha imparato da me, se vuole, mi paga il prezzo che io stabilisco altrimenti, entrato in un tempio, dichiara sotto giuramento quanto, a suo giudizio, valgono gli insegnamenti ricevuti, e quel tanto poi mi paga.

E con questo, Socrate, ti ho narrato un mito ed esposto un ragionamento che ti dimostrano come la virtù si possa insegnare e come gli Ateniesi siano di quest'opinione, e che non è cosa di cui stupirsi che da padri eccellenti nascano figli buoni a nulla, e da padri mediocri figli eccellenti: anche i figli di Policleto, (56) coetanei di Paralo e Santippo (57) qui presenti, non sono niente, se paragonati al padre, e così accade per i figli di altri artefici.

Ma su costoro non è ancora il caso di emettere questa sentenza: in loro, infatti, vi sono ancora speranze, poiché sono giovani».

Dopo essersi esibito in tante e tali dimostrazioni, Protagora smise di parlare. Ed io, per molto tempo ancora, rimasi incantato a guardarlo, nella speranza che dicesse ancora qualcosa, tanto grande era il mio desiderio di starlo a sentire. Ma quando mi resi conto che aveva veramente smesso, allora, con l'aria di essermi a stento riavuto, dissi, rivolgendomi a Ippocrate «Figlio di Apollodoro, quanto ti sono grato per avermi spinto a venire qui! Considero infatti cosa di grande valore l'avere udito ciò che ho appena udito da Protagora. In passato non ritenevo che i buoni fossero tali in virtù di un'umana cura; ora, invece, ne sono persuaso.

Se non fosse per un dettaglio che mi mette in difficoltà, che, com'è chiaro, Protagora saprà risolvere facilmente, visto che ha saputo spiegare a fondo tutto il resto. Se uno, infatti, s'intrattenesse su tali argomenti con uno qualsiasi degli oratori politici, probabilmente sentirebbe fare discorsi di questo tipo anche da Pericle o da chiunque altro abbia il dono dell'eloquenza. Ma se poi si facesse a qualcuno di loro qualche altra domanda, essi, come libri scritti, (58) non avrebbero nulla da rispondere, né da chiedere a loro volta. E se uno tornasse a chiedere chiarimenti anche su un particolare di ciò che da loro è stato detto, allora, come fanno i vasi di bronzo, che, percossi, continuano per lungo tempo a risuonare finché qualcuno non li prenda in mano, così anche i retori, interrogati circa piccole questioni, tirerebbero avanti un discorso lungo un dolico. Il nostro Protagora, invece, è capace di fare lunghi e bei discorsi, come mostrano questi che ha appena fatto, ma è anche capace, quando lo si interroghi, di rispondere brevemente, e, quand'è lui a interrogare, di aspettare e di ricevere la risposta: cosa, questa, che a pochi riesce. Ebbene, ora, Protagora, mi manca un particolare per avere un quadro completo, cioè che tu risponda a questa mia domanda. Tu sostieni che la virtù è insegnabile, e se c'è uno fra gli uomini a cui posso credere, quello sei tu. C'è una cosa, però, che mi sono meravigliato di sentirti dire, ed è questo il bisogno che devi appagare nella mia anima. A tuo dire, Zeus avrebbe mandato agli uomini la giustizia e il rispetto, e, del resto, più volte nel corso del tuo ragionamento hai parlato di giustizia, di temperanza, di santità e di tutte queste cose come se nell'insieme fossero una cosa sola, vale a dire la virtù. Ed è proprio questo quello che vorrei tu mi spiegassi in modo preciso, col ragionamento, cioè se la virtù è una cosa sola e la giustizia, la temperanza e la santità sono parti di essa, oppure se questi che io ora ho menzionato sono tutti nomi del medesimo ed unico essere. Questo è ciò che ancora mi preme capire».

«è facile, o Socrate», disse, «rispondere a questa domanda: essendo la virtù un'unica cosa, quelle di cui tu mi domandi sono parti di essa».

«E in che modo», gli chiesi, «sono parti di essa? Nel modo in cui bocca, naso, occhi e orecchi sono parti del volto, o nel modo in cui le parti dell'oro non differiscono in nulla le une dalle altre, fra di loro e in rapporto al tutto, se non in grandezza o in piccolezza?» «Io direi nel primo modo, Socrate, ossia nel modo in cui le parti del volto stanno in rapporto all'intero volto». «E gli uomini», dissi, «partecipano chi di una chi di un'altra di queste parti della virtù, o è necessario che, quando se ne abbia acquistata una, le si possieda, per questo, tutte?» «Non è affatto necessario», rispose, «visto che molti sono coraggiosi ma ingiusti; oppure sono giusti ma non saggi». «Anche queste, dunque», dissi, «sono parti della virtù, ossia la sapienza e il coraggio?» «Al di sopra di tutto», rispose. «Anzi, la sapienza ne è la parte più importante». «E ciascuna di esse», dissi, «è diversa dalle altre parti?» «Sì ». «E ciascuna di esse ha una sua particolare funzione? Per esempio, nel caso delle parti del volto, l'occhio non è come l'orecchio, né la sua funzione è la stessa, e nessuna delle altre parti è uguale all'altra, né nella funzione che le è propria né nel resto. Forse è così anche per le parti della virtù, che l'una non è uguale all'altra, né in se stessa né nella funzione che le è propria? Non è forse evidente che le cose stanno così , se il caso in questione somiglia all'esempio?» «Ma le cose stanno proprio così , Socrate!», rispose.

Allora dissi: «Dunque nessun'altra parte della virtù è come la conoscenza, né come la giustizia, né come il coraggio, né come la temperanza, né come la santità». «Non lo è», disse. «Su, allora», dissi, «esaminiamo insieme quale sia la natura di ciascuna di esse. Prima di tutto, esaminiamo questo: la giustizia è una cosa reale o non lo è? A me, infatti, pare che lo sia. E a te, che te ne pare?» «Anche a me pare che lo sia», disse. «E allora, se qualcuno chiedesse a me e a te: "O Protagora e Socrate, ditemi: questa cosa che avete appena nominato, ossia la giustizia, è essa stessa giusta o ingiusta?", io gli risponderei che è giusta. E tu che voto daresti? Il mio stesso voto, o un voto diverso?» «Il tuo stesso voto», rispose.

«La giustizia, dunque, si identifica con l'essere cosa giusta, direi io in risposta a chi me lo chiedesse. Diresti così anche tu?» «Sì », disse. «E se allora, dopo questa, ci facesse quest'altra domanda: "Non dite che esiste anche una certa cosa detta santità?"; noi risponderemmo che esiste, almeno credo». «Sì », disse. «"E non dite che anche questa è una cosa reale?"; noi risponderemmo che lo è. O no?». Anche su questo si disse d'accordo. «"E dite che questa stessa cosa si identifica con l'essere, per natura, cosa empia o cosa santa?". Io a questa domanda andrei in collera», dissi, «e risponderei: "Bada a come parli, o uomo! A stento, infatti, potrebbe esserci qualcos'altro di santo, se la santità stessa non fosse santa". Ma tu che ne dici? Non risponderesti anche tu così ?» «Certamente», disse.

«Se poi costui ci chiedesse: "Come dicevate poco fa? Forse allora non vi ho capito bene! Mi è parso che voi sostenevate che le parti della virtù stanno, le une rispetto alle altre, in un rapporto tale che l'una non è come l'altra"; io gli risponderei: "Il resto l'hai capito bene; quanto al fatto invece che anch'io avrei affermato questo, hai frainteso: è stato infatti il nostro Protagora a dare questa risposta, mentre io glielo stavo solo domandando". Se quindi domandasse: "Dice la verità costui, o Protagora? Sei tu a sostenere che le parti della virtù sono una diversa dall'altra? E tua questa affermazione?", tu che cosa gli risponderesti?» «Dovrei necessariamente ammetterlo, o Socrate», disse.

«Ebbene, Protagora, fatta questa ammissione, che cosa gli risponderemmo, se ci chiedesse: "La santità, allora, non è tale da esser cosa santa, e la giustizia non è tale da esser cosa santa, ma è tale, invece, da esser cosa non santa? E la santità è tale da esser cosa non giusta, ma ingiusta, e l'altra, vale a dire la giustizia, tale da esser cosa empia?". Che cosa gli risponderemmo? Io, per me almeno, gli risponderei che sia la giustizia è cosa santa, sia la santità è cosa giusta. E anche per te, se tu mi lasciassi fare, darei questa stessa risposta, vale a dire che la giustizia si identifica con la santità, o che almeno le è molto simile, e che la giustizia è uguale alla santità e la santità alla giustizia più di quanto non lo siano fra loro tutte le altre parti. Vedi, dunque, se non mi lasci dare questa risposta, o se anche tu sei di quest'opinione». «Non mi pare affatto, Socrate», disse, «che la questione sia così semplice da riconoscere che la giustizia è cosa santa e la santità cosa giusta; piuttosto, mi pare che vi sia una certa differenza. Ma che importa?», proseguì . «Se vuoi, ammettiamo pure che la giustizia sia cosa santa e la santità cosa giusta». «Non mi va bene!», dissi. «Non ho alcun bisogno che questo "se vuoi" e quel "se ti pare" sia oggetto di confutazione, ma che nella confutazione ci si riferisca a "me e te".

E questo "me e te" lo dico nella convinzione che il miglior modo di sottoporre il ragionamento a confutazione è quello di togliere via quel "se"». «Ma del resto», disse, «la giustizia ha qualche somiglianza con la santità: qualsiasi cosa assomiglia, per un verso o per l'altro, a qualsiasi cosa! Il bianco, infatti, in un certo senso, assomiglia al nero, il duro al molle, e così le altre cose che pure sembrano all'apparenza le più contrarie fra loro. Anche quelle cose che prima dicevamo avere una diversa funzione ed essere l'una diversa dall'altra, ossia le parti del volto, per un certo verso si assomigliano e sono l'una uguale all'altra. Sicché, in questo modo almeno, se tu volessi, potresti dimostrare anche l'ipotesi contraria, cioè che tutte le cose sono simili fra loro. Ma non è giusto chiamare simili le cose che hanno qualcosa in comune, come non lo è chiamare dissimili le cose che hanno qualcosa di dissimile, se quello che hanno in comune è ben poca cosa». Ed io, stupito, gli dissi: «Per te, allora, il giusto e il santo stanno fra loro in termini tali da avere in comune ben poca cosa?» «Non è precisamente così », rispose, «ma nemmeno come tu mi sembri pensare che sia!».

«Allora», dissi, «visto che mi sembri avere una certa avversione per quest'argomento, lasciamolo perdere ed esaminiamo quest'altra tua affermazione. C'è qualcosa che tu chiami stoltezza?». Disse di sì . «E la saggezza non è l'esatto contrario di questa cosa?» «Mi pare di sì », disse. «E quando gli uomini compiono azioni corrette e utili, ti pare che siano temperanti ad agire così , o ti pare il contrario?» «Che siano temperanti», disse. «E non sono forse temperanti in virtù della temperanza?» «Necessariamente».

«E quelli che compiono azioni non corrette, non si comportano forse stoltamente? E non è forse vero che non sonotemperanti se così si comportano?» «Pare anche a me», disse. «Il comportarsi stoltamente non è allora il contrario del comportarsi in modo temperato?».

Disse che lo era. «E le azioni compiute stoltamente non sono forse compiute per effetto di stoltezza, mentre quelle compiute in modo temperato lo sono per effetto di temperanza?» Lo ammise. «E se un'azione è compiuta con forza, non è forse compiuta fortemente, mentre se è compiuta con debolezza è compiuta debolmente?» Gli parve che fosse così . «E se è compiuta con velocità, velocemente, e se è compiuta con lentezza, lentamente?». Disse di sì . «E quando un'azione è compiuta in un certo modo, è compiuta per effetto di quella certa cosa, e se è compiuta in modo contrario, per effetto della cosa contraria?».

Si disse d'accordo. «Su, allora», dissi, «c'è qualcosa che sia il bello?».

Lo ammise. «E c'è qualcosa che sia a questo opposto e che non sia il brutto?» «Non c'è». «Ed esiste il bene?» «Esiste». «Ed esiste qualcosa che sia a questo opposto e che non sia il male?» «Non esiste». «Ed esiste una qualità nella voce che sia l'acuto?».

Disse di sì . «Ed esiste una qualità che sia a questa opposta e che non sia il grave?». Disse di no. «Allora», dissi io, «per ciascuna cosa esiste un solo contrario e non molti». Riconobbe che era così .

«Su allora», dissi, «riepiloghiamo quanto abbiamo insieme convenuto. Abbiamo convenuto che per ogni singola cosa esiste un solo contrario e non più di uno?» «Lo abbiamo convenuto». «E che l'azione compiuta in un dato modo contrario è compiuta per effetto di quella data cosa contraria?». Disse di sì . «Abbiamo convenuto che l'azione compiuta stoltamente è compiuta in modo contrario all'azione compiuta in maniera temperata?».

Disse di sì . «E che l'azione compiuta in modo temperato è compiuta per effetto di temperanza, mentre quella compiuta stoltamente è compiuta per effetto di stoltezza?» «Sì ». «E se quest'azione è compiuta in modo contrario a quella, non dovrebbe allora esser compiuta per effetto di una cosa contraria?» «Sì ». «E l'una è compiuta per effetto di stoltezza, mentre l'altra lo è per effetto di temperanza?» «Sì ». «In modo contrario?» «Certo». «Dunque, per effetto di cose contrarie?» «Sì ». «La stoltezza non è allora il contrario della temperanza?» «Così pare!». «Ti ricordi, dunque, che nel precedente ragionamento abbiamo convenuto che la stoltezza è contraria alla saggezza?» Lo ammise. «E che per ogni singola cosa esiste un solo contrario?» «Sì ». «Allora, Protagora, quale di queste due affermazioni dobbiamo lasciar cadere: l'affermazione che per ogni singola cosa esiste un solo contrario, o quella con cui si sosteneva che la saggezza è diversa dalla temperanza, e che l'una e l'altra sono parti della virtù, e che, oltre a essere diverse, sono anche dissimili, e in se stesse e nelle loro funzioni, come accade per le parti del volto? Quale delle due affermazioni lasciar cadere? A sostenerle entrambe, infatti, queste due affermazioni non sono fra loro in sintonia, perché non si accordano né si armonizzano fra loro. Come potrebbero, del resto, accordarsi se, per necessità, per ogni singola cosa esiste un solo contrario, e non più di uno, mentre alla stoltezza, che è una cosa sola, appaiono contrarie saggezza e temperanza? E così , Protagora, o le cose stanno in qualche altro modo?». Lo ammise anche se piuttosto malvolentieri. «Non dovrebbero allora essere una cosa sola la saggezza e la temperanza? Del resto, prima ci è parso che la giustizia e la santità fossero quasi la stessa cosa! Su, Protagora», continuai, «non facciamoci prendere dalla stanchezza ed esaminiamo anche il resto.

Un uomo che commetta ingiustizia, ti pare che agisca con temperanza nel commettere ingiustizia?» «Mi vergognerei, o Socrate», rispose, «ad ammettere questo, benché molti uomini lo sostengano». «A costoro, dunque, dovrò rivolgere il mio ragionamento», dissi, «o a te?» «Se vuoi», rispose, «discuti prima contro quest'affermazione, che rappresenta l'opinione della maggior parte della gente». «Ma per me non fa alcuna differenza se questa sia o non sia la tua opinione, purché tu mi risponda, almeno. Infatti, è l'opinione in se cio che innanzi tutto esamino, anche se forse poi accade che ad essere esaminati siamo tanto io che interrogo quanto colui che risponde». Sulle prime Protagora fece il ritroso con noi, e adduceva la scusa che l'argomento era scabroso; ma poi accettò di rispondere.

«Su», dissi, «rispondimi da capo: esistono uomini che ti sembrano agire con temperanza pur commettendo ingiustizia?» «E sia», rispose. «Ma tu dici che essere temperante equivalga ad essere assennato?». Disse di sì . «E dici che l'essere assennato consiste nel prendere la giusta decisione, quando si commette ingiustizia?» «E sia», disse. «E in quale dei due casi?», dissi io. «Quando, commettendo ingiustizia, si riesce bene, o quando si falliscono i propri intenti?» «Quando si riesce bene». «E ci sono cose che definisci buone?» «Ce ne sono». «E sono buone», dissi, «le cose che sono utili agli uomini?» «Sì , per Zeus!», rispose. «E ci sono cose che io chiamo buone anche se non sono utili agli uomini».

Avevo l'impressione che Protagora fosse ormai irritato, agitato e in allarme nel dare le sue risposte. Poiché lo vedevo in questo stato, con molta cautela delicatamente gli chiesi: «Stai parlando, Protagora, di cose che non sono utili agli uomini, o di cose che non sono utili in generale? Anche cose di questo genere tu le definisci buone?» «Niente affatto», rispose. «Ma conosco molte cose che per gli uomini sono nocive, cibi, bevande, farmaci e infinite altre cose; altre che invece sono utili; altre che per gli uomini non sono né nocive né utili, ma lo sono per i cavalli; altre poi che lo sono solo per le vacche, altre per i cani; altre ancora che non lo sono per nessuna specie animale, ma per le piante. E, fra queste, alcune fanno bene alle radici della pianta, ma sono dannose ai germogli: per fare un esempio, il letame è buono se viene gettato alle radici di tutte le piante, ma, se si volesse spargerlo sui rami giovani e sui germogli, manderebbe tutto in rovina. E anche l'olio è dannosissimo per tutte le piante e grande nemico dei peli di tutte le bestie, eccetto i peli dell'uomo; per i peli dell'uomo, come per il resto del corpo, è invece benefico. Il bene è una cosa tanto varia e multiforme che, anche nel caso dell'olio, una data cosa è buona, per l'uomo, per le parti esterne del corpo, e quella stessa cosa è invece dannosissima per le parti interne. Perciò tutti i medici proibiscono ai malati di far uso di olio, se non in minima quantità mescolato alle cose che il malato deve mangiare, quel tanto che basta a cancellare la sensazione di nausea che essi provano all'odore dei cibi e delle vivande».

Quand'ebbe detto ciò, i presenti applaudirono fragorosamente, significando, con questo, che a loro giudizio aveva parlato bene.

Allora dissi: «Protagora, si dà il caso che io sia uomo di poca memoria, e se uno mi fa lunghi discorsi, dimentico l'argomento di cui si parlava. Ebbene, se mi accadesse di essere un po' sordo, penseresti, trovandoti a dover discutere con me, che con me bisogna parlare a voce più alta che con gli altri. Così anche ora, visto che ti sei imbattuto in uno che ha poca memoria, per me tieni pure corte le tue risposte e falle più brevi, se vuoi che ti segua».

«E come pretendi che io ti dia brevi risposte? Devo forse risponderti più in breve del dovuto?», disse.

«Niente affatto», risposi io.

«Devo allora darti risposte lunghe quanto occorre?», chiese.

«Sì », risposi.

«Ma dovrò darti risposte lunghe quanto sembra a me che debbano esserlo, o quanto sembra a te?» «Ho sentito dire», dissi allora, «che tu, sugli stessi argomenti, sei capace, sia tu per tuo conto sia di insegnare ad altri a farlo, di tenere, quando vuoi, lunghi discorsi, in modo tale che la parola non ti viene mai a mancare, e che d'altra parte sai anche tenere discorsi tanto brevi, che nessuno potrebbe parlarne più in breve di te.

Se, quindi, vuoi discutere con me, serviti di questo secondo modo nel rivolgerti a me, ossia del parlare in modo conciso».

«Socrate», rispose, «sono ormai molti gli uomini con cui sono arrivato a contesa verbale, e se avessi fatto allora quello che tu ora pretendi che io faccia, vale a dire se avessi discusso nella maniera in cui l'avversario pretendeva che io discutessi, non avrei avuto la meglio su nessuno, né si farebbe il nome di Protagora fra i Greci».

Ed io, sapendo che non era soddisfatto delle risposte che mi aveva dato prima e che non avrebbe acconsentito di buon grado a dialogare nella parte di chi risponde, pensai che non potevo più cavarne nulla a restare in quella compagnia e dissi: «Protagora, neppure io muoio dalla voglia che questa nostra conversazione si svolga in modo contrario al tuo parere, ma quando tu vorrai discutere in modo che io possa seguirti, allora io discuterò con te.

Tu, infatti, a quel che si dice di te, e come tu stesso sostieni, sai reggere il dialogo sia coi lunghi discorsi che coi discorsi concisi, perché sei sapiente. Io, invece, sono incapace di questi lunghi discorsi, per quanto vorrei esserne capace. Bisognerebbe che fossi tu ad adattarti a me, visto che sei capace di entrambi, perché la nostra discussione potesse aver luogo. Ma ora, visto che non sei disposto a farlo e io ho un impegno e non posso star qui con te che tiri i tuoi discorsi per le lunghe, perché bisogna che io vada in un posto, vado, anche se forse non senza piacere starei a sentirti».

E nel dire ciò, mi alzai e feci per andarmene. Ma, mentre mi alzavo, Callia mi afferrò per la mano con la destra, e con la sinistra mi prese per questo mantello, e disse: «Non lasceremo che tu te ne vada, Socrate, perché se tu te ne vai, la nostra discussione non sarà più la stessa. Ti chiedo dunque di restare fra noi: non c'è nulla che starei a sentire con un piacere maggiore di quanto ne provo a sentir discutere te e Protagora. Fa' un favore a tutti noi!».

Ed io dissi, quando ormai mi ero già alzato con l'intenzione di uscire: «O figlio di Ipponico, da sempre ammiro il tuo amore per la sapienza, ma ora lo lodo e lo apprezzo in modo particolare, al punto che davvero vorrei farti questo favore, se solo tu mi chiedessi cosa che potessi fare. Ma ora è come se tu mi chiedessi di tenere il passo col corridore Crisone d'Imera (59) quand'è al meglio della sua forma, o di gareggiare nella corsa e tener dietro a uno di quei corridori di lunghe distanze (60) o a uno di quei corrieri che corrono un giorno intero: (61) io ti risponderei che sono io a domandare a me stesso, molto più di quanto tu non faccia, di tener dietro alla loro corsa, ma non ne sono capace, e se la tua richiesta è proprio quella di vedere me e Crisone correre insieme, chiedi a lui di rallentare, perché io non so correre veloce, mentre egli sa correre lentamente. Se, dunque, desideri ascoltare me e Protagora, pregalo che, come prima dava risposte brevi e pertinenti alle domande che gli venivano rivolte, così anche ora risponda.

Altrimenti, che genere di metodo avranno mai i nostri dialoghi?

Io, infatti, ho sempre considerato cose diverse il trovarsi insieme a discutere e il tenere discorsi in piazza». «Ma vedi, Socrate», disse Callia, «a me pare che Protagora dica cose giuste, reclamando il suo diritto di discutere nel modo in cui vuole lui, e, d'altro canto, il tuo diritto di discutere come vuoi tu».

Allora Alcibiade, (62) presa la parola, disse: «Non dici bene, o Callia.

Il nostro Socrate, infatti, ammette che non è da lui parlare in modo prolisso e si arrende a Protagora. Quanto, però, al saper sostenere una discussione, e al sapersi destreggiare nel dare e ricevere risposte, mi stupirei se fosse secondo a qualcuno. Se, dunque, anche Protagora ammette di essere inferiore a Socrate nel sostenere una discussione, Socrate è soddisfatto. Se invece s'impunta a far valere i suoi diritti, allora accetti di discutere facendo domande e dando risposte, senza sviluppare un lungo discorso ad ogni domanda, eludendo le obiezioni e rifiutandosi di giustificare le proprie affermazioni, ma tirando la cosa per le lunghe finché la maggior parte degli ascoltatori non abbia dimenticato qual era l'oggetto della domanda. Quanto a Socrate, infatti, vi garantisco io che non se ne dimenticherebbe, e che scherza, quando dice di aver poca memoria. A me pare, quindi, che le pretese di Socrate siano, più ragionevoli, dato che ciascuno deve esprimere la propria opinione».

Dopo Alcibiade, mi pare fu Crizia (63) a parlare: «O Prodico e Ippia, mi sembra che Callia sia in tutto e per tutto dalla parte di Protagora; Alcibiade, poi, è il solito attaccabrighe in ogni cosa in cui si mette. Ma noi non dobbiamo schierarci né dalla parte di Socrate né dalla parte di Protagora, bensì stare uniti a pregare l'uno e l'altro di non disfare nel bel mezzo la riunione».

Com'egli ebbe detto ciò, Prodico (64) disse: «Mi pare che tu dica bene, o Crizia bisogna, infatti, che coloro che sono presenti a questo genere di discussioni, siano uditori imparziali di entrambi coloro che discutono, ma non equanimi.

Non è la stessa cosa, infatti: bisogna stare a sentire entrambi in modo imparziale, ma non dare uguale importanza all'uno e all'altro, bensì darne di più al più sapiente e meno al meno sapiente. Io, per conto mio, o Protagora e Socrate, vi domando di mettervi d'accordo e di sostenere, sì , tesi opposte sugli argomenti in discussione, ma di non entrare in contesa. Anche fra amici, infatti, ci si contraddice l'un l'altro per benevolenza, mentre a contendere fra loro sono gli avversari e i nemici. E in questo modo la nostra discussione sarebbe bellissima: voi che discutete, così facendo, avreste in sommo grado la stima di noi ascoltatori, senza venire lodati; la stima, infatti, ha sede nell'anima degli ascoltatori senza inganno, mentre la lode si trova spesso nelle parole di gente che mente contro quello che pensa. Quanto a noi ascoltatori, poi, se le cose avvenissero in questo modo, proveremmo il massimo della gioia, senza provare piacere: si prova gioia, infatti, quando s'impara qualcosa e si attinge al sapere proprio con la mente, mentre si prova piacere quando si mangia o quando si sperimenta qualche altra sensazione piacevole proprio con il corpo».

Come Prodico ebbe detto ciò, molti dei presenti espressero la loro approvazione. Dopo Prodico fu Ippia il sapiente (65) a parlare, e disse: «Uomini qui presenti, io considero voi tutti consanguinei, imparentati e concittadini per natura, non per legge: il simile è infatti per natura imparentato al simile, mentre la legge, che è tiranna degli uomini, forza contro la natura molte cose.

è quindi vergognoso che noi, mentre conosciamo la natura delle cose, e siamo i più sapienti dei Greci e proprio per questo siamo oggi convenuti in quello che è il pritaneo (66) della sapienza della Grecia, e nella casa più illustre e più ricca di questa città, diamo tuttavia a vedere di non essere per niente degni di questo nostro prestigio, ma ci comportiamo fra di noi come i più volgari degli uomini.

Io vi prego e vi esorto, dunque, o Protagora e Socrate, a venirvi incontro metà strada dando retta a noi che facciamo da arbitri conciliatori tu, Socrate, non impuntarti a ottenere a tutti i costi quella concisa forma di dialogo che si svolge per brevi battute, se questa non piace a Protagora, ma dà corda e allenta le redini ai discorsi, perché ci appaiano più solenni e più eleganti; e tu, Protagora, a tua volta, spiegando tutte le vele, abbandonandoti al vento favorevole, non fuggire nel mare aperto dei discorsi, perdendo di vista la terra; piuttosto, tenete entrambi una via di mezzo. Così dovete fare, datemi retta e sceglietevi un arbitro, un sovrintendente e un presidente, che sorvegli per voi la giusta lunghezza dei discorsi di ciascuno».

Queste parole piacquero ai presenti e tutti le elogiarono. Quanto a me, Callia disse che non mi avrebbe lasciato andar via e mi fu chiesto di scegliere un sovrintendente. Io, allora, dissi che sarebbe stato offensivo scegliere qualcuno che facesse da arbitro ai nostri discorsi: «Se il prescelto sarà inferiore a noi, non sarà giusto che l'inferiore presieda ai migliori; se sarà nostro pari, nemmeno così andrà bene, perché uno che sia nostro pari farà anche cose uguali a noi, sicché sceglierlo sarà inutile. Ma allora dovrete scegliere uno migliore di noi! In verità, secondo me, sarà impossibile per voi scegliere qualcuno che sia più sapiente del nostro Protagora.

Se poi ne sceglierete uno per niente migliore, e sosterrete tuttavia che lo è, anche questo sarà offensivo nei suoi confronti, il scegliere cioè per lui un sovrintendente, come se lui fosse uomo da poco. Quanto a me, poi, non me ne importa nulla. Sono però disposto a fare così , perché la nostra riunione e i nostri discorsi possano avere lo sviluppo che voi desiderate: se Protagora non vuole rispondere, faccia pure lui le domande ed io risponderò, e nello stesso tempo tenterò di mostrargli come io sostengo debba rispondere colui che risponde. Quando, però, io avrò risposto a tutto quello che lui vorrà domandarmi, prometta, a sua volta, di rispondermi allo stesso modo. E se non sembrerà disposto a rispondere proprio alla domanda che gli vien fatta, allora io e voi, insieme, lo pregheremo delle stesse cose di cui ora voi pregate me, vale a dire di non rovinare la riunione. E non ci sarà alcun bisogno, per fare questo, che qualcuno sia nominato sovrintendente, ma sarete voi, tutti insieme, a fare da arbitri». A tutti parve che così si dovesse fare. Quanto a Protagora, la cosa non gli andava proprio a genio, ma fu tuttavia costretto ad acconsentire a fare lui le domande, e, quando ne avesse fatte abbastanza, a giustificare a sua volta le proprie affermazioni rispondendo con brevi risposte. Iniziò, dunque, a interrogare press'a poco così : «Socrate, credo», disse, «che la parte più importante dell'educazione spirituale di un uomo consista nell'essere esperto di poesie; e questo a sua volta consiste nel saper capire, fra quanto i poeti hanno detto, quali opere siano state ben composte e quali no, nel saper fare distinzioni e, se interrogato, nel saperle spiegare. Ebbene, la mia domanda, ora, riguarderà sempre lo stesso argomento su cui io e tu stiamo discutendo, vale a dire la virtù, anche se riferita alla poesia.

Ad un certo punto, Simonide, (67) rivolgendosi a Scopa, figlio di Creonte il Tessalo, (68) dice: "Diventare uomo buono veramente è difficile, di mani, di piede, di cuore tetragono, senza pecca costruito". Conosci questo carme, (69) o devo recitartelo per intero?».

Allora risposi: «Non ce n'è alcun bisogno: conosco il carme, e anzi si dà il caso che mi sia interessato molto ad esso».

«Dici bene», disse; «e ti pare che sia stato composto in modo bello e giusto?» «Bello e giusto davvero!», risposi. «E penseresti che è stato composto in bel modo, se il poeta contraddicesse se stesso?» «Se così fosse, penserei che non è stato composto in bel modo», dissi io.

«E allora», disse, «guarda meglio!». «Ma, amico mio, l'ho esaminato abbastanza!». «Allora tu sai», disse, «che, andando avanti col carme, egli dice: "Né appropriato mi suona il detto di Pittaco, (70) benché proferito da uomo sapiente: difficile, diceva, essere buono. Ti accorgi che è la stessa persona a fare queste affermazioni e quelle di prima?» «Lo so», risposi. «Ebbene», disse, «ti sembra che queste concordino con quelle?» «A me pare di sì », risposi.

Ma intanto cominciavo a temere che in quello che diceva ci fosse qualcosa di vero. «Perché, a te pare di no?», soggiunsi. «E come potrebbe sembrare coerente con se stesso chi sostiene entrambe queste affermazioni? Prima pone la premessa che è difficile diventare veramente uomo buono; poi, poco avanti nel carme, se ne dimentica e rimprovera Pittaco che dice le stesse cose che diceva lui, e cioè che è difficile essere buono, e dice di non approvarlo, benché costui faccia le sue stesse affermazioni! Ebbene, visto che rimprovera chi fa le sue stesse affermazioni, è chiaro che rimprovera anche se stesso, sicché, o non è corretta la prima cosa che ha detto o non è corretta la seconda».

E con queste parole scatenò l'applauso e la lode di molti degli ascoltatori. Quanto a me, in un primo momento, come se fossi stato colpito da un buon pugile, mi si oscurò la vista e fui preso da vertigini a queste sue parole e al frastuono degli applausi.

Poi, a dirti la verità allo scopo di guadagnar tempo per riflettere su che cosa volesse dire il poeta, mi rivolsi verso Prodico, e, chiamatolo, gli dissi: «O Prodico, Simonide è dopo tutto tuo concittadino: è giusto, quindi, che sia tu a venire in suo aiuto.

Mi pare, dunque, di poterti chiamare in soccorso, come Omero narra che lo Scamandro, cinto d'assedio da Achille, chiamasse in aiuto il Simoenta, dicendo: caro fratello, cerchiamo insieme di trattenere la forza di quest'eroe.(71) Così anch'io ti chiamo in soccorso, perché Protagora non ci espugni Simonide. Per restaurare Simonide, infatti, c'è proprio bisogno della tua arte, con cui distingui volere e desiderare dimostrando che non sono la stessa cosa, e con cui fai quelle numerose e belle distinzioni di cui poco fa dicevi. E ora guarda se anche tu la pensi come me, perché a me non pare che Simonide contraddica se stesso. Tocca a te, Prodico, esprimere la tua opinione: ti sembra che "diventare" ed "essere" siano la stessa cosa, o cose diverse?» «Per Zeus, diverse!», rispose Prodico. «Ebbene», dissi, «nei primi versi Simonide non ha forse espresso la propria opinione, sostenendo che diventare uomo buono è davvero difficile?» «Dici il vero», disse Prodico.

«E rimprovera, invece, Pittaco», dissi, «non, come pensa Protagora, perché dice le stesse cose che dice lui, ma perché dice una cosa diversa. Non era questo, infatti, che Pittaco definiva difficile, ossia diventare buono, come invece sosteneva Simonide, bensì esserlo.

Essere e divenire, Protagora, non sono la stessa cosa, come attesta il nostro Prodico. E se essere non ha lo stesso significato di divenire, allora Simonide non si contraddice. E forse il nostro Prodico, e con lui molti altri, direbbero, con le parole di Esiodo, che diventare buono è difficile perché davanti alla virtù gli dèi hanno posto sudore, ma che, giunto che uno sia in cima ad essa, torna poi facile, per quanto ardua essa sia, conservarne il possesso». (72) Prodico, udito ciò, si congratulò con me. Protagora invece disse: «La tua restaurazione, o Socrate, implica un errore più grande di quello che intendevi risanare».

Ed io risposi: «A quanto pare, allora, ho fatto un cattivo lavoro, Protagora, e sono un medico ridicolo: curandolo, rendo il male più grave».

«è proprio così », disse.

«E come?», gli chiesi.

«Ben grande», disse, «sarebbe l'ignoranza del poeta, se sostenesse che è cosa da poco conservare il possesso della virtù, quand'essa è, di tutte le cose, la più difficile, come tutti pensano».

Ed io dissi: «Per Zeus! Prodico capita davvero a proposito nei nostri discorsi! Si dà il caso, infatti, Protagora, che quella di Prodico sia un'antica sapienza di origine divina, sia che abbia preso inizio da Simonide, sia ancora più anticamente. E tu, pur essendo al corrente di molte altre cose, è evidente che di questa sei all'oscuro, a differenza di me, che ne sono invece esperto, per essere stato discepolo del nostro Prodico. E così , ora mi sembri non capire che, forse, Simonide non dava alla parola "difficile" il significato che le dai tu. Lo stesso vale per la parola "terribile": ogni volta che io, con l'intenzione di lodare te o qualcun altro, dico che Protagora è uomo sapiente e terribile, Prodico mi rimprovera e mi chiede se io non provi vergogna a chiamare terribili le cose buone; ciò che è terribile, lui dice, è cattivo. Nessuno, perciò, dice, di volta in volta, "terribile ricchezza", né "terribile pace", né "terribile salute", ma "terribile malattia", "terribile guerra" e "terribile povertà", nella convinzione che ciò che è terribile sia cattivo.

Ebbene, forse anche alla parola "difficile" quelli di Ceo e Simonide attribuiscono il significato di "cattivo", o qualche altro significato che tu non conosci. Chiediamolo dunque a Prodico, perché è giusto interrogare lui sulla lingua di Simonide! Che voleva dire Simonide con la parola "difficile", Prodico?» «Cattivo», rispose.

«E per questo, allora», dissi io, «o Prodico, che rimprovera a Pittaco l'affermazione che "è difficile essere buono": è come se l'avesse sentito dire che è cosa cattiva essere buono!».

«Ma, Socrate», disse, «cos'altro credi che Simonide abbia detto se non questo, e cos'altro credi che rimproveri a Pittaco, se non la sua incapacità di distinguere correttamente le parole, da cittadino di Lesbo qual era, e perciò allevato in una lingua barbara?» «Ebbene», dissi, «o Protagora, senti anche tu il nostro Prodico.

Hai qualcosa da obiettare a queste sue affermazioni?» E Protagora: «Ce ne vuole», disse, «a che le cose stiano così , o Prodico! So bene, invece, che anche Simonide usava la parola "difficile" nello stesso significato in cui la usiamo noi altri, vale a dire non nel senso di "cosa cattiva", ma nel senso di "cosa che non è facile, e che si ottiene a prezzo di molte fatiche"».

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