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Platone - Protagora

platone

AMICO: Da dove salti fuori, o Socrate? Ma è chiaro, sicuramente torni dalla caccia al bell'Alcibiade!(1) L'ho visto ieril'altro, e mi è parso ancora un bell'uomo, e tuttavia ormai uomo, sia detto fra noi, o Socrate, che si è già quasi coperto di barba!

 

SOCRATE: E con questo, allora? Non sei ammiratore di Omero, il quale sosteneva che l'età più grata è quella di colui al quale spunta la prima barba,(2) appunto l'età che ha ora Alcibiade? (3)

AMICO: E ora che fai? è veramente da lui che vieni? E in che disposizione d'animo è, il giovanotto, nei tuoi riguardi?

SOCRATE: Buona, almeno mi è sembrato; anzi, oggi in modo particolare! Ha fatto molte affermazioni in mio favore, per aiutarmi, ed è proprio da lui che vengo adesso. Ma voglio confidarti una cosa ben strana: benché egli fosse lì , io non gli prestavo attenzione, e più di una volta mi dimenticai della sua presenza.

AMICO: E che potrebbe mai esser successo di tanto grave fra te e lui? Dì certo non avrai incontrato qualcun altro più bello di lui, non in questa città, almeno!(4)

SOCRATE: E molto più bello, per giunta!

AMICO: Che dici? Un cittadino o uno da fuori?

SOCRATE: Uno da fuori!

AMICO: Di dove?

SOCRATE: Di Abdera.(5)

AMICO: E un forestiero ti è sembrato essere così bello da apparire ai tuoi occhi addirittura più bello del figlio di Clinia? (6)

SOCRATE: E come potrebbe, o carissimo, non apparire più bello il più sapiente?

AMICO: Ma allora, o Socrate, è dall'incontro con un sapiente che sei di ritorno da noi?

SOCRATE: E col più sapiente dei nostri giorni, se anche tu stimi Protagora il più sapiente! (7)

AMICO: Oh! Che dici? Protagora è in città?

SOCRATE: Sono ormai tre giorni che è qui!

AMICO: Ed è proprio dall'incontro con lui che vieni?

SOCRATE: Certo! E dopo aver detto e ascoltato molte cose.

AMICO: Perché, allora, non ci racconti di quest'incontro, se non c'è nulla che te lo impedisca? Siediti qui! Fa' alzare questo schiavo!

SOCRATE: Sicuro! Anzi, vi sarò grato se mi ascolterete.

AMICO: E noi saremo grati a te, se parlerai.

SOCRATE: La gratitudine sarebbe allora reciproca. State a sentire.

La notte scorsa, quando non era ancora l'alba, Ippocrate, figlio di Apollodoro e fratello di Fasone,(8) bussò a gran forza, col bastone, alla mia porta; e, non appena qualcuno gli aprì , subito entrò, in gran fretta, e chiamando a gran voce:

«O Socrate!», disse.

«Sei sveglio o dormi?». Ed io, riconosciuta la sua voce: «Ippocrate», dissi, «sei tu? Mi porti forse qualche novità?»

«Nessuna», disse, «se non buone novità!». «Faresti bene a parlare, allora!», dissi. «Che c'è? Perché sei venuto a quest'ora?» «Protagora è qui!», disse stando in piedi accanto a me. «Già da ieri l'altro», dissi. «E tu l'hai saputo solo ora?» «Per gli dèi», disse, «l'ho saputo ieri sera!».

E intanto, cercato a tastoni il mio letto, si sedette ai miei piedi e disse: «Proprio ieri sera, sul tardi, quand'ero appena rincasato da Enoè;(9) m'era scappato uno schiavo, Satiro. Stavo proprio per venire a dirti che gli avrei dato la caccia, quando qualche altra cosa me ne fece dimenticare. Quando fui rincasato, dunque, e dopo che avevamo cenato, quando stavamo ormai per andare a dormire, proprio allora mio fratello mi disse che era arrivato Protagora. Sul momento mi accinsi a venire dritto da te, poi mi parve che fosse notte troppo inoltrata.

Ma, non appena il sonno mi lasciò libero dalla stanchezza, subito mi levai e venni qui». Ed io, conoscendo la sua indole ardente ed impulsiva, gli dissi: «E che te ne importa? Ti ha forse fatto qualche torto Protagora?». Ed egli, scoppiando a ridere, disse: «Sì , per gli dèi, o Socrate! Il torto che lui è il solo ad essere sapiente e non rende tale anche me». «Ma sì , per Zeus», dissi io, «che renderà anche te sapiente, se gli darai denaro (10) e lo convincerai!». «Per Zeus e per tutti gli dèi!», disse. «Magari dipendesse da questo! Non risparmierei un soldo né del mio denaro né dì quello degli amici! Ma è proprio per questo che ora sono venuto da te, perché tu interceda presso di lui in mio favore: io sono troppo giovane e per di più non ho mai visto Protagora, né l'ho mai sentito parlare. Ero ancora un ragazzino quando venne in città la prima volta.(11) Ma tutti, o Socrate, elogiano quest'uomo e dicono che sia grande intenditore di eloquenza.

Perché, dunque, non andiamo da lui, per poterlo trovare in casa? Egli alloggia, come ho sentito dire, in casa di Callia, figlio di Ipponico.(12) Su, andiamo!». Ed io gli dissi: «Non è ancora il momento di andare, o mio caro; è troppo presto.

Alziamoci, piuttosto, e andiamo qui, in cortile: passeremo il tempo a passeggiarvi aspettando che si faccia giorno; poi andremo. Protagora, infatti, passa la maggior parte del tempo in casa. Sicché abbi fiducia, che, com'è probabile. lo troveremo in casa».

Dopodiché, alzatici, andammo a passeggiare in cortile. Ed io, per mettere alla prova la forza d'animo di Ippocrate, lo esaminai e gli feci queste domande: «Dimmi, Ippocrate», gli chiesi: «ora tu ti appresti ad andare da Protagora a pagargli un compenso in denaro perché ti prenda sotto le sue cure; ebbene, da chi ti aspetti di andare e che cosa intendi diventare? Mettiamo, ad esempio, che tu ti fossi messo in mente di andare dal tuo omonimo Ippocrate di Cos,(13) l'Asclepiade, a dargli del denaro come compenso perché si prenda cura di te; ebbene, se qualcuno ti chiedesse: "Dimmi, Ippocrate, tu stai per pagare a Ippocrate un compenso; chi sei convinto che egli sia, per farlo?", tu, allora, che cosa gli risponderesti?» «Gli risponderei», disse, «che lo pagherei perché lo considero un medico». «E con l'intenzione di diventare che cosa?» «Di diventare medico», disse. «E supponiamo, invece, che tu ti fossi messo in mente di andare da Policleto di Argo (14) o da Fidia di Atene,(15) a pagare loro un compenso perché si prendano cura di te, e che qualcuno ti chiedesse: "Tu hai in mente di pagare questa somma di denaro a Policleto e a Fidia; ebbene, chi sei convinto che essi siano, per farlo?", che cosa risponderesti?» «Risponderei che lo farei perché li considero scultori». «E nella speranza di diventare che cosa?» «Sperando, ovviamente, di diventare scultore!». «E sia», dissi. «Ora tu ed io, giunti da Protagora, saremo disposti a pagargli un compenso in denaro perché ti prenda sotto le sue cure, spendendo tutto i nostri averi, se questi basteranno a convincerlo, altrimenti, spendendo anche quelli degli amici; ebbene, se uno, vedendoci prendere la cosa tanto seriamente, ci chiedesse: "Ditemi, o Socrate e Ippocrate, chi vi aspettate che sia Protagora per pensare di spendere da lui il vostro denaro?", noi che cosa gli risponderemmo? Quale altro nome sentiamo dire riferito a Protagora?

Ad esempio, riferito a Fidia sentiamo dire "scultore", e riferito ad Omero "poeta"; ebbene, quale nome di questo tipo sentiamo dire riferito a Protagora?» «Sofista, o Socrate! Almeno, così chiamano quest'uomo», disse. «In quanto è sofista, allora, andiamo a spendervi i nostri denai».

«Certo!». «E se qualcuno ti facesse quest'altra domanda: "E nella speranza di diventare che cosa tu vai da Protagora?"». Ed egli, arrossendo (c'era già un po' di luce, sicché lo si poteva vedere), disse: «Se questo caso somiglia ai casi precedenti, ovviamente sperando di diventare sofista».

«Ma tu, in nome degli dèi», dissi, «non proveresti vergogna a presentarti ai Greci in veste di sofista?» «Sì , per Zeus, o Socrate, se bisogna proprio ch'io dica quello che penso!». «Ma forse, o Ippocrate, tu non pensi che l'istruzione che ti verrà data da Protagora sarà qualcosa di questo tipo, ma che sarà piuttosto un'istruzione del tipo di quella che hai ricevuto dal maestro di grammatica, dal maestro di musica e dal maestro di ginnastica: tu imparasti ciascuna di queste discipline non in funzione dell'arte, per diventare cioè professionista in esse, ma solo in funzione della tua educazione spirituale, come si addice al cittadino privato e libero». «è proprio questo», disse, «il tipo di istruzione che mi aspetto di ricevere da Protagora».

«Sai, dunque, che cosa stai per fare ora, o questo ti sfugge?», continuai. «Di che cosa stai parlando?» «Parlo del fatto che tu stai per affidare la tua anima alle cure di un uomo, che, come tu dici, è un sofista. Che cosa poi sia un sofista, mi stupirei se tu lo sapessi. E se ignori questo, allora ignori pure a chi affidi la tua anima, e se questo si risolverà in un fine buono o cattivo».

«Ma io penso di saperlo», disse. «Dimmi, allora: che cosa pensi che sia un sofista?» «Penso», rispose, «che, come dice il nome stesso, egli sia l'esperto della sapienza». «Ma questo», dissi io, «lo si può dire anche dei pittori e degli architetti, vale a dire che costoro sono gli esperti della sapienza. Ma se qualcuno ci chiedesse: "Di quale tipo di sapienza sono esperti i pittori?", noi potremmo rispondergli che sono esperti di quel tipo di sapienza che mira alla realizzazione di immagini; e anche negli altri casi potremmo ripondere nello stesso modo. Se qualcuno poi ci facesse questa domanda: "Di quale tipo di sapienza è esperto il sofista?", noi che cosa potremmo rispondergli? Di produrre che cosa è egli esperto?» «Che altro potremmo dire che egli è, o Socrate, se non esperto nel rendere abili a parlare?» «Forse», dissi, «la nostra definizione potrebbe anche essere vera; tuttavia non è sufficiente. Questa risposta, infatti, chiama un'ulteriore domanda: su che cosa il sofista rende abili a parlare? Ad esempio, il maestro di cetra rende abili a parlare della stessa cosa di cui rende anche esperti, ossia dell'arte di suonare la cetra.

Non è così ?» «Sì ». «E sia. Ma il sofista, di che cosa rende abili a parlare?» «Non è evidente che egli rende abili a parlare proprio della cosa di cui rende anche esperti?» «è naturale. Ma che cos'è, allora, ciò di cui il sofista è esperto e su cui rende esperto il suo discepolo?» «Per Zeus!», disse. Non so più che cosa risponderti».

Ed io, a questo punto, gli dissi: «E allora? Sai in quale pericolo vai a mettere la tua anima? Se tu dovessi affidare a qualcuno il tuo corpo correndo il rischio che diventi buono o cattivo, faresti molte considerazioni sull'opportunità di affidarlo o no, e cercheresti consiglio dagli amici e dai parenti, riflettendovi molti giorni. Invece, quando è in gioco ciò che tu consideri più prezioso del corpo, vale a dire l'anima, dalla quale dipende la buona o cattiva riuscita di tutte le tue azioni, a seconda che essa sia, rispettivamente, buona o cattiva, in questo caso non ti sei consigliato né con tuo padre, né con tuo fratello, né con alcuno dei tuoi amici sull'opportunità di affidare o no la tua anima a questo forestiero appena arrivato da fuori; ma, saputo del suo arrivo la sera, come tu racconti, di primo mattino sei già qui, senza far parola né chiedere consiglio se tu debba o no affidarti a costui, e sei pronto a spendere il tuo denaro e quello degli amici, come se già avessi deciso che a tutti i costi bisogna frequentare la scuola di Protagora, che del resto tu non conosci, come tu stesso riconosci, e con cui non hai mai conversato; che tu chiami sofista e hai tutta l'aria di ignorare che cosa mai sia questo sofista al quale tu stai per affidare te stesso». Ed egli, dopo avermi ascoltato, disse: «Così pare, o Socrate, da quanto tu dici». «Dunque, o Ippocrate, il sofista non è forse una specie di mercante all'ingrosso (16) o rivenditore al minuto di quelle merci di cui l'anima si nutre? A me, almeno, pare che sia qualcosa del genere». «Ma di che cosa si nutre l'anima, o Socrate?» «Di conoscenze, non c'è dubbio», risposi io. E bisogna tenere gli occhi bene aperti, amico mio, che il sofista, lodando la sua mercanzia, non ci inganni, come fanno quelli che vendono il cibo del corpo, cioè il mercante e il bottegaio. Costoro, infatti, delle merci che trattano, non sanno neppur essi quale sia buona e quale sia cattiva per il corpo, ma le lodano tutte pur di venderle.

E non lo sanno neppure quelli che da loro le comprano, a meno che uno non sia maestro di ginnastica o medico. Così anche coloro che trafficano in conoscenze, portandole in giro di città in città, per smerciarle all'ingrosso o rivenderle al minuto a chi di volta in volta le desidera, lodano tutto ciò che hanno da vendere. Ma forse, o carissimo, anche fra costoro ci sono alcuni che ignorano, delle merci che trattano, quale è buona e quale è cattiva per l'anima.

E allo stesso modo lo ignorano anche quelli che da loro le comprano, a meno che uno non sia medico dell'anima. Se tu, dunque, te ne intendi di quale di queste conoscenze sia buona e quale cattiva, allora per te è un acquisto sicuro comprarle da Protagora e da chiunque altro. Altrimenti, bada, o carissimo, di non giocarti e di non mettere a repentaglio quanto hai di più caro. Infatti, c'è un pericolo ben più grande nell'acquisto di conoscenze che nell'acquisto di cibi, perché quando si comprano cibi e bevande dal bottegaio o dal mercante li si può portar via in altri recipienti, e, prima di assumerli nel proprio corpo, bevendoli o mangiandoli, dopo averli riposti in casa, si può chiedere consiglio, domandando a chi se ne intende, su quale vada mangiato o bevuto e quale no, e in che quantità e quando. Sicché nell'acquisto non c'è grande pericolo.

Conoscenze, invece, non se ne possono portar via in un altro recipiente; ma, necessariamente, una volta saldato il conto, e assunta e imparata quella conoscenza proprio nell'anima, si va via o danneggiati o beneficati. Queste faccende, dunque, esaminiamole anche con quelli più vecchi di noi, perché noi siamo ancora troppo giovani per risolvere questioni di tale importanza. Ora però, visto che ormai siamo in ballo, andiamo a sentire quest'uomo e poi, dopo che l'avremo ascoltato, ci consulteremo anche con altri.

Là, infatti, non c'è solo Protagora, ma anche Ippia di Elide, (17) e, penso, Prodico di Ceo (18) e molti altri sapienti». Presa questa decisione, ci incamminammo e, una volta giunti nel vestibolo, fermati i nostri passi, discutemmo di una questione su cui la conversazione, lungo la strada, era caduta. Dunque, per non lasciarla in sospeso ma portarla a una conclusione e solo allora entrare, poi, in casa, continuammo a discutere stando in piedi nel vestibolo, finché arrivammo ad un accordo. Ebbene, ho l'impressione che il portinaio, un eunuco, ci abbia sentiti, e può darsi che, a causa della gran folla di sofisti, fosse irritato con quelli che venivano in visita a quella casa. Certo è che, quando bussammo alla porta, dopo averci aperto e averci visti, disse: «Ahimè! Sofisti!

Non ha tempo!». E intanto, con entrambe le mani, con tutta la forza di cui era capace sbatté la porta. Noi, allora, tornammo a bussare, ed egli, senza aprire la porta, per tutta risposta ci disse: «Gente! Non avete sentito che non ha tempo?» «Ma, buon uomo», dissi io, «non è da Callia che veniamo, nè siamo sofisti. Fatti animo! Siamo venuti perché abbiamo bisogno di vedere Protagora. Annunciaci, dunque!». A quel punto, dì mala voglia, l'uomo ci aprì la porta. Una volta entrati, trovammo Protagora che passeggiava sul lato anteriore del portico. Accanto a lui passeggiavano, in ordine di posto, da una parte Callia figlio di Ipponico e il suo fratello uterino, Paralo figlio di Pericle, (19) e Carmide figlio di Glaucone; (20) dall'altra parte, l'altro figlio di Pericle, Santippo, (21) Filippide figlio di Filomelo (22) e Antimero di Mende,(23) che fra i discepoli di Protagora è quello che si fa più onore e che impara il mestiere, per diventare a sua volta sofista. Quelli, poi, che seguivano costoro da dietro per ascoltare ciò che si diceva, per la maggior parte avevano l'aria dì essere gente da fuori, di quella gente che Protagora si tira dietro da ciascuna delle città per cui passa, incantandoli con la voce come Orfeo,(24) e quelli seguono la sua voce ammaliati.

E in quel coro c'erano anche alcuni del posto. Ed io, alla vista di questo coro, fui deliziato a vedere con che cautela stavano attenti a non venire a trovarsi davanti a Protagora e a non essergli d'intralcio, e a vedere come, quando lui sì girava, e con lui si giravano quelli che camminavano al suo fianco, in bell'ordine questi uditori si dividevano facendo ala da una parte e dall'altra e, girando in circolo, tornavano a disporsi alle loro spalle in bel modo davvero.

E dopo di lui conobbi, come dice Omero,(25) Ippia di Elide, seduto su un seggio sul lato opposto del portico; intorno a lui sedevano su panche Erissimaco figlio di Acumeno,(26) Fedro del demo di Mirrinunte, (27) Androne figlio di Androzione (28) e, tra i forestieri, alcuni suoi concittadini, e altra gente ancora. Mi parve che stessero interrogando Ippia su questioni astronomiche, a proposito della natura e dei fenomeni celesti, e lui, dall'alto del suo seggio, risolveva e spiegava quanto gli veniva chiesto.

E poi vidi anche Tantalo. (29) C'era, infatti, anche Prodico di Ceo: (30) stava in una stanza che Ipponico prima usava come dispensa; ma ora, visto il gran numero di quelli che avevano preso alloggio lì , Callia aveva sgomberato anche quella e ne aveva fatto un quartiere per gli ospiti. Ebbene, Prodico era ancora a letto, avvolto in certe pelli e coperte, che erano davvero molte, a quanto sembrava.

Vicino a lui sedevano, sui letti lì accanto, Pausania del Ceramico (31) e, con Pausania, un giovane, ancora adolescente, a mio giudizio di indole buona e onesta, e senza dubbio di gran bell'aspetto.

Mi parve di sentire che il suo nome fosse Agatone, (32) e non sarei meravigliato se fosse l'amato di Pausania. C'era, dunque, questo giovanotto e i due Adimanto, il figlio di Cepide e il figlio di Leucolofide, (33) e si vedeva altra gente ancora. Di che cosa parlassero, non potevo capirlo dal di fuori, per quanto ardessi dal desiderio di sentire Prodico, perché lo considero uomo sapientissimo e divino; ma la sua voce profonda rimbombava nella stanza e rendeva incomprensibili le parole.

Eravamo appena entrati, quando dietro di noi entrarono Alcibiade il bello, (34) come tu dici, e io te ne do ragione, e Crizia figlio di Callescro.(35) Entrati che fummo, passato ancora qualche tempo a osservare quello spettacolo, ci avvicinammo a Protagora, e io dissi: «O Protagora, è per te che siamo venuti io e questo Ippocrate».

«Per parlarmi da solo», disse, «o anche davanti agli altri?» «Per noi», risposi, «non fa alcuna differenza; piuttosto, quando avrai udito il motivo per cui siamo giunti, sarai tu a decidere». «Qual è, dunque», disse, «il motivo per cui siete giunti?» «Questo Ippocrate è uno di qui, figlio di Apollodoro, di famiglia importante e ricca, e lui stesso per natura, mi sembra, può competere coi suoi coetanei. Ha l'ambizione, mi pare, di diventare persona di spicco in questa città, ed è convinto che questo gli riuscirebbe con particolare successo se solo potesse frequentarti.

Ora vedi tu, se pensi che di queste cose si debba discutere da solo a solo, o in presenza di altri». «è giusto, o Socrate», disse, «che tu ti prenda di questi riguardi nel mio interesse. Per un forestiero, infatti, che va nelle grandi città e in esse convince il fiore della gioventù a lasciare la compagnia degli altri, sia dei familiari sia degli estranei, sia dei più vecchi sia dei più giovani, e a frequentare lui nella speranza di diventare migliori per effetto della sua compagnia; ebbene, per chi fa questo è necessario esser molto cauti, perché non piccole invidie nascono intorno a queste cose, per non dire di altri rancori e insidie.

Io affermo che la sofistica è un'arte antica, ma che quegli antichi che la praticavano, nel timore dell'odiosità che essa suscita, si sono costruiti un paravento e ce l'hanno nascosta dietro, alcuni il paravento della poesia, come Omero,(36) Esiodo (37) e Simonide; (38) altri quello dei riti e dei vaticini, come Orfeo, (39) Museo (40) e i loro adepti; mi sono accorto poi di alcuni che perfino della ginnastica si sono fatti paravento, come Icco di Taranto (41) e colui che è tuttora sofista a nessuno inferiore, Erodico di Selimbria, nativo di Megara.(42) Si servì , invece, della musica come paravento il vostro Agatocle,(43) che fu grande sofista, e come lui Pitoclide di Ceo (44) e molti altri. Tutti costoro, come dicevo, per paura dell'invidia si servirono di queste arti come coperture. Io, invece, dissento in questo da tutti costoro: non credo, infatti, che abbiano ottenuto ciò che speravano. In effetti, agli uomini che hanno potere nelle città non passano inosservati gli scopi che questi paraventi hanno.

Certo, la maggior parte della gente non si accorge, diciamo, di niente, ma ripete come un ritornello le dichiarazioni di costoro. Ora, se uno, mentre tenta di sfuggire, non la fa franca, ma la sua fuga viene scoperta, è gran follia anche il solo averla tentata, e, di necessità, questo rende gli uomini molto più ostili, perché pensano che una persona del genere sia, oltre al resto, anche un truffatore. Io, quindi, ho imboccato la strada opposta alla loro: ammetto di essere un sofista e di educare gli uomini, e ritengo che questo, cioè ammetterlo anziché negarlo, sia una cautela più efficace dell'altra. E oltre a questa ho escogitato altre precauzioni, in modo che, con l'aiuto di un dio, non mi capiti alcun guaio per il fatto di ammettere che sono un sofista. Eppure, sono anni ormai che pratico quest'arte, e certo, mettendo insieme i miei anni, molti ne ho: non c'è nessuno fra tutti voi di cui io, per età, non possa essere padre. Sicché, se avete qualche richiesta, preferisco di gran lunga che ne parliate di fronte a tutti i presenti».

Ed io, sospettando che egli volesse farsi bello di fronte a Prodico e a Ippia e pavoneggiarsi del fatto che noi eravamo arrivati lì perché suoi ammiratori, dissi: «Perché, allora, non chiamiamo anche Prodico e Ippia e quelli che sono con loro, affinché possano stare ad ascoltare?» «Sicuro!», disse Protagora.

«Volete, allora», chiese Callia, «che faccia preparare una sala coi seggi, perché possiate discutere stando seduti?». Parve che così si dovesse fare, e noi tutti, contenti al pensiero che avremmo ascoltato quei sapienti, presi da noi gli scanni e le panche, li sistemammo vicino ad Ippia, perché lì c'erano già altri scanni. In quella giunsero Callia e Alcibiade, portandosi dietro Prodico, che avevano fatto alzare dal letto, e quelli che si trovavano insieme a Prodico.

Come ci fummo tutti seduti, Protagora disse: «Ora che anche costoro sono presenti, o Socrate, dimmi pure ciò a cui prima accennavi a proposito di questo giovanotto».

Ed io dissi: «Il motivo principale che ci ha spinti qui, o Protagora, è lo stesso di cui poco fa ti dicevo. Questo Ippocrate desidera frequentare la tua compagnia. Che cosa gliene verrà, frequentandoti, sarebbe contento, lui dice, di saperlo. Questo è quanto avevamo da dirti».

Protagora, allora, prese la parola e disse: «Giovanotto, se mi frequenterai, sin dal giorno medesimo che comincerai a frequentarmi, potrai tornartene a casa migliore di prima, e il giorno successivo la stessa cosa. E di giorno in giorno farai continui progressi verso il meglio».

Ed io, udito ciò, dissi: «O Protagora, questo che dici non è nulla di stupefacente, ma è normale, dal momento che anche tu, benché così avanti negli anni e così sapiente, se qualcuno ti insegnasse qualcosa che tu avessi la ventura di ignorare, diventeresti migliore. Ma la questione non va posta in questi termini: piuttosto, supponiamo che Ippocrate, mutando improvvisamente desiderio, volesse frequentare quel giovane che è da poco in città, Zeusippo di Eraclea, (45) e che, andato da lui, come ora è venuto da te, si sentisse dare da lui la stessa risposta che ora sente da te, e cioè che ogni giorno, a frequentare lui, diventerebbe migliore e farebbe progressi.

Ora, se gli facesse quest'altra domanda: "In che cosa mi assicuri che sarò migliore e farò progressi?", Zeusippo gli risponderebbe che questo accadrebbe nella pittura. E supponiamo che, andato a trovare Ortagora di Tebe, (46) dopo aver sentito da lui le stesse cose che ora ha sentito da te, gli chiedesse in che cosa diventerebbe di giorno in giorno migliore frequentandolo, quello gli risponderebbe che diventerebbe migliore nell'arte di suonare il flauto. Ebbene, è in questi termini che anche tu devi rispondere a questo giovane e a me che ti interrogo per suo conto: "Questo nostro Ippocrate, frequentando Protagora, fin dal giorno stesso in cui prenderà a frequentarlo se ne andrà migliore di come è venuto, e così continuerà a fare progressi per ciascuno dei giorni successivi: ma progressi verso che cosa, o Protagora, e in quale campo?"».

E Protagora, udite queste mie domande, rispose: «Le tue domande sono a proposito, o Socrate, ed io rispondo volentieri a chi fa domande appropriate. Se Ippocrate verrà da me, non gli capiterà quello che gli accadrebbe frequentando un altro sofista, perché gli altri sofisti rovinano i giovani; infatti, mentre costoro sono fuggiti dalle arti, quelli tornano a gettarli nelle arti, trascinandoveli contro voglia, insegnando loro calcolo, astronomia, geometria e musica», e intanto gettò un'occhiata verso Ippia. «Frequentando me, invece, non imparerà altro se non ciò per cui è venuto. E il mio insegnamento ha come oggetto il buon senso, (47) sia nelle faccende private, ossia come amministrare al meglio la propria casa, sia negli affari della città, ossia come diventare abilissimo nel curare gli interessi della città, nell'agire e nel parlare».

«Dimmi», dissi allora, «se riesco a seguire il tuo ragionamento: mi pare che tu stia parlando dell'arte politica e che prometta di fare degli uomini dei buoni cittadini».

«E' proprio questa, o Socrate», rispose, «la professione che io professo!».

«Bell'acquisto davvero», dissi, «quest'arte che possiedi, ammesso che tu la possieda! Non ti dirò altro se non quello che penso. Non credevo, Protagora, che questo si potesse insegnare, ma, visto che tu lo sostieni, non ho motivo di non crederti. è giusto, però, che io spieghi l'origine della mia convinzione che questo non si potesse insegnare né procurare da uomo a uomo. Io sostengo, come del resto anche gli altri Elleni sostengono, che gli Ateniesi sono molto sapienti.

Ebbene, io vedo che, quando ci raduniamo in assemblea, se la città ha a che fare con questioni che riguardano la costruzione di edifici, si fanno intervenire in veste di consiglieri in materia di costruzioni gli architetti; se, invece, deve prendere qualche decisione circa la costruzione di navi, si mandano a chiamare i costruttori di navi, ed è lo stesso il criterio seguito quando si tratta di tutte le altre cose che, essi ritengono, si possano imparare ed insegnare. Ma se prova a dar loro consigli qualcun altro che essi non stimano pratico dì quel dato mestiere, per quanto sia bello, ricco e nobile, non per questo lo ascoltano, ma lo deridono ed esprimono il proprio malcontento levando un gran baccano, finché colui che ha tentato di parlare, interrotto da quel baccano, non desista per conto suo, o gli arcieri non lo tirino via e lo caccino fuori per ordine dei Pritani. (48) Così agiscono, dunque, in quelle questioni che essi ritengono dipendere da un'arte.

Quando invece si tratta di decidere circa l'amministrazione della città, allora si leva a dar loro consigli su tali questioni, indifferentemente, l'architetto, il fabbro, il calzolaio, il mercante, l'armatore, il ricco, il povero, il nobile e il plebeo, e a costoro nessuno rinfaccia, come invece si rinfaccia a quelli del caso precedente, di mettersi a dar consigli senza aver prima imparato da qualche parte e senza aver avuto alcun maestro. è chiaro che questo accade perché non la considerano cosa che si possa insegnare. E bada che questo non accade solo nella vita pubblica della città, ma che anche nella vita privata i più sapienti e i migliori cittadini non sono capaci di trasmettere ad altri quella virtù che essi possiedono.

Pericle, ad esempio, padre di questi giovani, (49) diede loro un'educazione ineccepibile in quelle cose che dipendono dai maestri, mentre in quelle cose in cui è egli stesso sapiente, né li educa personalmente, né li affida ad altri, ma lascia che pascolino circolando liberamente come animali sacri, affinché possano, in qualche posto, imbattersi da soli nella virtù. E se vuoi un altro caso, lo stesso Pericle, avendo la tutela di Clinia, (50) fratello minore del nostro Alcibiade, e nutrendo per lui il timore che venisse corrotto da Alcibiade, lo staccò da costui e lo mise in casa di Arifrone,(51) perché lo educasse; ebbene, prima che fossero passati sei mesi, quello glielo restituì , non sapendo farne nulla di buono. E potrei farti il nome di moltissimi altri uomini, che, per quanto buoni fossero essi stessi, non riuscirono mai a rendere migliore nessun altro, né dei familiari né degli estranei. Se io, dunque, guardo a questi casi, o Protagora, non penso che la virtù sia insegnabile. Ma adesso che ti sento fare queste affermazioni, mi lascio piegare e penso che quello che dici deve pur valere qualcosa, perché credo che tu abbia esperienza di molte cose, che molte le abbia imparate e molte le abbia scoperte per conto tuo. Perciò, se hai modo di mostrarci con maggiore evidenza che la virtù è insegnabile, non rifiutarci questa dimostrazione».

«Ma io, o Socrate», disse, «non mi rifiuterò! Preferite, invece, che io, come anziano che si rivolge a gente giovane, ve lo dimostri raccontando un mito o analizzandolo col ragionamento?».

Molti dei presenti gli risposero che lo dimostrasse pure come voleva.

«Allora», diss'egli, «a me pare che sarebbe più gradito se io vi raccontassi un mito.

C'era un tempo in cui esistevano gli dèi, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando poi anche per queste venne il tempo destinato per la loro creazione, furono dèi a foggiarle, nell'interno della terra, mescolando terra e fuoco e quelle sostanze che si fondono con fuoco e terra. E quando era destino che dovessero portarle alla luce, assegnarono a Prometeo e ad Epimeteo (52) l'incarico di fornire e di distribuire facoltà a ciascuna razza come si conviene. Ma Epimeteo chiese a Prometeo di lasciar fare a lui la distribuzione: "Quando le avrò distribuite", gli disse, "tu verrai a controllare". E, dopo averlo così persuaso, mise mano alla distribuzione.

Nel corso della distribuzione, ad alcune razze assegnò la forza senza la velocità, mentre fornì le razze più deboli di velocità. Certe razze le provvide di armi di difesa, per altre, invece, cui aveva conferito una natura inerme, escogitò qualche altra facoltà che assicurasse loro la salvezza. Infatti, quelle razze che rivestì di piccolezza, le provvide della capacità di fuggire con le ali, o di rifugiarsi in tane sotterranee; a quelle che invece fece crescere in grandezza, garantì la salvezza proprio con questo mezzo. E le altre facoltà le distribuì cercando di compensarle in questo modo. Ed escogitò questo avendo la cautela che nessuna specie potesse estinguersi. Dopo che le ebbe provviste di vie di scampo dalla distruzione reciproca, escogitò un efficace espediente perché si proteggessero contro le stagioni mandate da Zeus, vestendole di peli folti e di pelli spesse, adatte a proteggerle dal freddo e capaci di difenderle anche dalla calura, e tali che, quando si mettono a dormire, ciascuna specie trovi in esse le sue coltri personali e naturali. E alcune le calzò di zoccoli, altre invece le provvide di pelli spesse e senza sangue. In seguito, procacciò certi cibi per certe specie, altri per altre: ad alcune specie riservò le erbe della terra, ad altre i frutti degli alberi, ad altre le radici.

E vi sono specie cui concesse di trovare il loro nutrimento predando altre specie animali. E fece in modo che le une fossero poco feconde, e che quelle destinate a esser preda di queste fossero invece molto prolifiche, al fine di assicurare la conservazione della specie. Se non che, non essendo un tipo molto accorto, Epimeteo non s'avvide di aver speso tutte le facoltà con gli animali: gli restava ancora sprovvista la razza umana, e non sapeva trovare una soluzione. Mentre si trovava impacciato in quest'inghippo, Prometeo viene a controllare il risultato della distribuzione, e vede che le altre specie animali erano ben provviste di tutto, mentre l'uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. Ed era ormai vicino il giorno predestinato in cui bisognava che anche l'uomo uscisse dalla terra alla luce. Prometeo, allora, trovandosi in difficoltà circa il mezzo di conservazione che potesse trovare per l'uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme al fuoco, perché senza il fuoco era impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all'uomo. Grazie ad essa l'uomo possedeva la sapienza necessaria a sopravvivere, ma gli mancava ancora la sapienza politica, perché questa era in mano a Zeus. Prometeo poi non aveva più accesso all'acropoli, dimora di Zeus; per di più, c'erano anche le terribili guardie di Zeus. Egli allora s'introduce furtivamente nell'officina che Atena ed Efesto avevano in comune, in cui essi lavoravano insieme, e, rubata l'arte del fuoco di Efesto e quell'altra arte che apparteneva ad Atena, la dona all'uomo: di qui vennero all'uomo i mezzi per vivere. Ma in seguito, come si racconta, Prometeo, per colpa di Epimeteo, venne punito per quel furto.

E, poiché l'uomo venne ad aver parte di un destino divino, innanzi tutto, per via di questa sua parentela col dio, solo fra gli animali credette negli dèi, e si mise a innalzare altari e statue di dèi. In seguito, con l'arte presto articolò voce e parole, inventò dimore, vesti, calzari, giacigli e scoprì i cibi che venivano dalla terra.

Così provvisti, all'inizio gli uomini abitavano in insediamenti sparsi, e non esistevano città. Perciò morivano uccisi dalle fiere, poiché erano sotto ogni rispetto più deboli di esse, e l'arte artigiana che essi possedevano bastava loro a procurarsi cibo, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, non possedevano ancora l'arte politica, di cui l'arte della guerra è parte. Cercavano quindi di unirsi e di salvarsi fondando città. Ma, una volta che si erano uniti, si facevano torti l'un l'altro, perché non possedevano l'arte politica, sicché, tornando a disperdersi, morivano. Zeus, allora, temendo che la nostra specie si estinguesse, manda Ermes a portare agli uomini rispetto e giustizia, perché fossero regole ordinatrici di città e legami che uniscono in amicizia. Ermes chiede a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini giustizia e rispetto: "Devo distribuirli seguendo lo stesso criterio con cui si sono distribuite le arti? Perché quelle vennero distribuite in questo modo: uno solo che possieda l'arte medica basta per molti che di quell'arte sono profani, e così per gli altri specialisti.

Ebbene, giustizia e rispetto devo distribuirli fra gli uomini con questo criterio, o devo distribuirne a tutti?" "A tutti", disse Zeus, "che tutti ne diventino partecipi. Perché non potrebbero nascere città, se solo pochi di loro ne avessero parte, come accade per le altre arti. Istituisci, anzi, una legge per conto mio: chi è incapace di partecipare di rispetto e giustizia sia messo a morte come flagello della città". Così stanno le cose, Socrate, e queste sono le ragioni per cui gli Ateniesi, e gli altri, quando si tratta della competenza nell'arte di costruire o di qualunque altra competenza artigiana, credono che solo a pochi spetti il diritto di partecipare alle decisioni, e se uno, che sia al di fuori di quei pochi, si mette a dare consigli, non lo tollerano, come tu dici: e con ragione, dico io. Quando invece si riuniscono in assemblea su questioni che hanno a che fare con la virtù politica, questioni che vanno trattate interamente con giustizia e temperanza, allora, giustamente, lasciano che chiunque dia il proprio parere, nella convinzione, appunto, che a tutti spetti di partecipare di questa virtù, o non esisterebbero città. Questa, Socrate, ne è la ragione.

Ma perché tu non creda di essere ingannato circa la mia affermazione che tutti ritengono che ogni uomo partecipi della giustizia e di ogni altra virtù politica, eccotene la prova. In tutte le altre competenze, come dici, se qualcuno afferma di essere, ad esempio, un abile suonatore di flauto, o di essere abile in qualsiasi altra arte in cui invece non lo sia, o ridono di lui o gli si adirano contro, ed i suoi di casa vanno da lui e cercano di farlo tornare in sé dandogli del pazzo. Quando si tratta invece di giustizia o di qualsiasi altra virtù politica, anche se tutti sanno che uno è ingiusto, quando costui dica contro il proprio interesse la verità di fronte a molta gente, la stessa cosa che nel caso precedente veniva considerata saggezza, cioè il dire la verità, in questo caso viene considerata segno di pazzia; e sostengono che tutti devono dichiarare di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di esserlo. E questo accade perché sono convinti che ognuno debba necessariamente, in un modo o nell'altro, partecipare di questa virtù, o che, nel caso contrario, non debba vivere fra gli uomini.

Il concetto che ti ho ora espresso7 dunque, è che gli Ateniesi accettano con ragione che ogni uomo dia consigli quando si tratta di virtù politica, per il fatto che sono convinti che ognuno partecipa di essa. E il prossimo concetto che tenterò di dimostrarti è che questa virtù non è un dono di natura né del caso, ma che è insegnabile e che chi la possiede la raggiunge grazie all'impegno. Nel caso di quei mali, infatti, che gli uomini credono, gli uni degli altri, di avere per natura o per caso, nessuno si sdegna, né ammonisce o ammaestra o rimprovera quelli che li hanno, perché smettano di essere tali, ma ne provano pietà. Chi potrebbe, ad esempio, essere così insensato da mettersi a fare una cosa del genere coi brutti, coi piccoli o coi deboli? Tutti sanno infatti, ne sono convinto, che queste cose vengono agli uomini perché portate dalla natura o dal caso, ossia le belle qualità e i difetti corrispondenti.

Nel caso, invece, di quelle qualità che si considerano essere per gli uomini frutto di impegno, di esercizio e di insegnamento, quando uno non le abbia, ed abbia invece i difetti opposti a quelle qualità, su costui e su quelli come lui cadono collere, rimproveri e ammonimenti. E uno di questi mali è l'ingiustizia, l'empietà, e, in somma, tutto ciò che è contrario alla virtù politica. è per questo che tutti si sdegnano contro tutti e a tutti dispensano le proprie esortazioni, evidentemente perché sono persuasi che la virtù politica è frutto di impegno e di studio. Se tu, o Socrate, vorrai considerare quale effetto può avere il punire coloro che commettono ingiustizia, questo basterà ad insegnarti che gli uomini considerano la virtù cosa che possa essere trasmessa. Nessuno, infatti, punisce i colpevoli di ingiustizie in considerazione del fatto che commisero ingiustizia e per questo motivo, a meno che uno, come una belva, non cerchi irrazionale vendetta. Ma chi tenta di punire razionalmente, non punisce per l'ingiustizia passata, perché non potrebbe far sì che ciò che è stato fatto non sia accaduto, ma punisce pensando al futuro, perché non torni a compiere ingiustizie né quello stesso individuo né altri che lo veda punito.

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